Che dire di questi lavori? Questa è stata la prima impressione/domanda che mi sono posto internamente quando Enzo Palumbo mi chiese di fissare su carta un pensiero sui suoi ultimi lavori.

D’altronde lo conosco bene Palumbo, meglio frequentato nelle vesti del Professor Palumbo, piuttosto che del Palumbo Artista. Anch’io del resto ho lavorato con lui come attore più che come critico d’arte, per progetti fatti con la cattedra di Arti Performative dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Insomma decisamente una situazione relazionale intricatasi da una successione di ruoli che si scambiano.
Dicevamo del coinvolgimento in quest’ultimo progetto espositivo, dove per l’appunto mi ha inviato una serie di materiali su cui stava lavorando: Phantasia. Sono rimasto molto colpito dal campo d’indagine entro cui proietta i suoi lavori. In effetti la scelta non è tanto ricaduta sul termine “fantasia”, che in definitiva classificherebbe bene le opere in mostra in quanto sembrano proprio essere a proposito del “capriccio”, ma piuttosto sulla sua origine greca che rimanda al termine “immagine”. Dunque phantasia è “apparizione”. Un ‘apparizione come un phantasma, che a sua volta rinvia a phantazo il cui significato è “appaio, faccio vedere”. Questo termine indica, in sostanza qualcosa che, seppur privo di consistenza, ci consente tuttavia di entrare in contatto con qualcosa. Ovvero con questo termine, “phantasia”, l’artista già ci avverte che queste opere, da cui svilisce una figurazione riconoscibile sono proprio quest’assenza, ovvero non sono altro che l’assenza in quanto tale. Ma nel loro essere a proposito dell’assenza, si lasciano attendere. Gli stessi titoli sono un continuo senza titolo, che spiazza da subito, mettendo lo spettatore in attesa. Ed è in questa pausa, che l’occhio, proprio perché non mosso da niente di specifico inizia a “riconoscere” una forma. Così come il bambino fa con le nuvole in cielo, le forme, letteralmente, appaiano.
Ricordo in particolare una perfomance a cui abbiamo lavorato, Il Poema dell’acqua. Enzo, è sempre mosso da una tensione verso l’arcaico, verso i segni che l’uomo scova nella natura, una natura alleata, su cui l’uomo rivolgeva/rivolgerà ancora il suo spirito. Enzo è sostanzialmente un sognatore, uno che fantastica, che spesso da professore quasi assegna le sue visioni ai suoi alunni. In effetti si tratta proprio di visioni. Lui non ha mai un canovaccio scritto, compone per quadri come procedesse a colpi d’immagini. Ma queste immagini non sono chiare da subito, il magma attorico è teso sempre verso il compimento di una determinata forma, come se il caos precedesse sempre ad ogni composizione. L’acqua in effetti è questa incondizionata trasformabilità. Non è mai ferma, non conosce radici, è forma perpetua.
Così appare la consistenza delle forme in queste opere, scorrevole, tremula, ma appena più fluida e meno liquida, quasi quasi solida. Direi che le forme sembrano subire una variazione di stato, o meglio sono colte in questa variazione che le rafferma come in una sospensione in cui l’identità non è ancora certa. È quest’incertezza ad affascinare la nostra immaginazione, questa indeterminazione apre a molteplici prospettive di visione.
Rivedendole le forme di queste opere sembrano possedere le qualità della cera. Una fermezza molle, un contorno che non nitida nessuna immagine chiara. La loro struttura mostra una soffice tattilità che permette allo sguardo di penetrarle, come un coltello nel burro. Nessuna tridimensionalità persiste, solo il tempo è trattenuto. Come nella cera ogni durezza perde la sua vigoria.
Come non pensare agli orologi di un Dalì? Ma non certo perché l’artista abbia qualche debito nei confronti di quest’artista, ma perché anche Palumbo ha usato la morbidezza per mettere in discussione le certezze volumetriche di un pensiero unico. Cosi come non esiste solo il tempo inteso come calcolo (di cui l’orologio sembra il più grande sostenitore), così l’antico non permane soltanto attraverso gli oggetti che lo evocano (a cui spesso affidiamo unicamente il nostro rapporto con la storia).
Il colore verdastro è effettivamente quel ferro antico, che l’artista sembra aver disciolto. Questo stesso processo di ossidoriduzione ha annullato l’oggetto in quanto tale, fissandolo soltanto come impressione. Quest’impressione ci rende infine soli davanti alla storia, una storia che non specificando alcunché è solo storia generale. È forse genetica. Nel senso che l’artista non fa altro che preparare la nostra mente a ricercare queste immagini antiche dentro di noi. Non è un richiamo al passato. È un passato presente.


Marcello Francolini