Il lavoro visivo, come quello plastico, di Enzo Palumbo mi ha suscitato un duplice rinvio memoriale.

Si tratta di qualcosa legato al tema del sogno, del lavoro onirico e delle immagini che ne conseguono. Grazie a quelle forme di particolari associazioni di idee, di cui possono essere causa determinati stimoli visivi, nel caso specifico determinati dalle opere di Enzo Palumbo, la mia mente è riandata a due passi da due libri di due pilastri della cultura occidentale: Platone e Leonardo da Vinci. Riguardo al primo, mi è tornato alla mente quel passo (476c) del V libro della Politeia, in cui Platone fa dire a Socrate qualcosa circa la natura del sogno. Si tratta di un punto del testo in cui, come di consueto (si tratta di un Leitmotiv platonico, e non solo), ci si interroga intorno al problema del rapporto tra verità e imitazione, verità e finzione, realtà, potremmo anche dire, e rappresentazione. E, del resto, cosa sarebbero mai i sogni se non rappresentazioni, evidentemente? Ma la questione, come è posta da Platone, tra l’altro discutendo del problema (dell’essenza) della bellezza, è un po’ più complessa. Per il filosofo ateniese, il sognare consiste nello scambiare il simile per l’identico; ne deriva, tra l’altro, il problema del rapporto tra copia e modello. Non è il caso, qui, di compiere un’esegesi del testo platonico, non è questa la circostanza per farlo, perché un’operazione del genere ci porterebbe troppo lontano da quello che è l’obiettivo di questo mio scritto, che vuole essere quello di indicare un percorso di riflessione, che possa affiancarsi alla ricerca visiva di Enzo Palumbo. Ma la questione dello scambiare ciò che somiglia a qualcosa per quel qualcosa stesso credo sia alla base del processo artistico, così come viene vissuto in Occidente, da migliaia di anni. Mi rendo conto che quest’ultima affermazione andrebbe mediata con una premura cautelativa. Infatti, non è che si possa parlare così semplicemente di arte per tutti quegli artefatti che si sono prodotti in Occidente da migliaia di anni in qua e che, magari, solo oggi vengono considerati come opere d’arte. L’arte è qualcosa di assolutamente indeterminato e instabile da un punto di vista essenziale e i suoi prodotti fluttuano in un ambito molto ampio, che per praticità definiamo estetico. Ma anche di questo discorso, incredibilmente ampio e complesso, occorre che ci si accontenti qui solo di un accenno.
Torniamo alla questione del sogno, del regno dell’onirico, dalle cui dinamiche sembrano uscite le figure che popolano i lavori di Enzo Palumbo. Il processo artistico, dicevo, sembrerebbe darsi anche, ma, forse, andrebbe detto – fondamentalmente – grazie alla possibilità dello scambio della “copia” per il modello. Affermare questo significa ritenere che al cuore del processo artistico si agiti il problema della finzione. È nel “Paragone delle arti” che Leonardo, nel suo Trattato, ricorda, al paragrafo intitolato “Del poeta, e del pittore”, che la superiorità della pittura sulle altre arti, massimamente sulla poesia, concerne la capacità, diremmo reale, effettiva, da parte di quella di fingere la realtà. Questo livello di finzione si manifesta più grande e raffinato, quando dall’ambito umano (Leonardo, a questo proposito, evoca anche la questione interessantissima dell’idolatria) si passa a quello animale.

Già vid’io una pittura, che ingannava il cane mediante la similitudine del suo padrone, alla quale esso cane faceva grandissima festa; e similmente ho visto i cani bajare, e voler mordere i cani dipinti; ed una scimmia fare infinite pazzie contro ad un’altra scimmia dipinta. Ho veduto la rondine volare e posarsi sopra gli ferri dipinti, che spuntano fuori dalle finestre delli edifizj; tutte operazioni del pittore maravigliosissime.

Ciò che Leonardo sta teorizzando, in questo paragrafo e in quelli immediatamente vicini a esso, riguarda quell’aspetto della pittura e delle arti, cosiddette mimetiche, in generale, considerato determinante nella riflessione estetica da Platone in poi (ma si potrebbe anche dire dai Presocratici in poi). L’arte imita la realtà, fino a costituirne un vero e proprio doppio, ma si tratta di un doppio che non è reale, da qui il paradosso dell’essenza finzionale dell’arte. E la vera grandezza dell’artefatto si ha quando questo riesce a ingannare chi è privo di sovrastrutture, diremmo oggi: l’animale. Questo, secondo i parametri dell’ideologia umanista, incarnerebbe una sorta di spontaneità pura, di immediatezza irriducibile, che si tradurrebbe, sul piano della sensibilità, in una percezione diretta, altrettanto pura e immediata. Ora, se un essere, che percepisce in maniera pura e immediata, posto di fronte a una pittura, ne scambia il soggetto per reale, come già accadde a quei famosi volatili per i chicchi di uva dipinti da Zeusi, significa che quella pittura e il suo autore sono riusciti a manifestare l’essenza più propria dell’arte, quell’essenza finzionale in grado di dare “vita” a ciò che vivo non è – come ci è stato, del resto, insegnato, a partire da altro specifico estetico, dal mito di Pigmalione. Stando, quindi, all’esemplificazione platonica, l’arte, quando riuscita, sarebbe sempre legata a una possibilità onirica. Perché, se, come abbiamo visto, sognare significa scambiare il simile con l’identico, la pratica artistica consentirebbe l’accesso a questa particolare modalità di scambio, mediante la forma espressiva delle sue rappresentazioni, dei suoi artefatti.
Siamo, però, con questa riflessione, fermi a un livello del fenomeno artistico, che potremmo definire risolutivo. Tutto quello che abbiamo descritto, con l’aiuto anche del testo di Leonardo, concerne il rapporto che si viene a creare tra opera d’arte e fruitore, fosse anche un animale e non, quindi, un fruitore umano. La questione onirica potrebbe però essere considerata anche a un altro livello dell’opera d’arte, quello cosiddetto genetico. Non mi riferisco, qui, a questioni di poetica che implicano un ricorso a risorse oniriche per quanto riguarda le tematiche impiegate nei soggetti pittorici; pensiamo, per esempio, all’importanza del sogno nella poetica surrealista e per quello che riguarda i soggetti di opere di quella medesima poetica, che talvolta si richiamano al sogno fin dai titoli. Quello, a cui si vuole fare riferimento, riguarda certamente una modalità compositiva, ancora però legata alla definizione platonica di cui sopra, per riflettere sulla quale possiamo attingere ulteriormente alle risorse del testo leonardesco. Nella seconda parte del Trattato, nei paragrafi che si concentrano sul problema della precettistica pittorica, Leonardo insiste più volte su una questione, che ci torna utile proprio per esplicitare un tratto tecnico-poetico dei lavori di Enzo Palumbo – tratto, oltretutto, che costituisce uno dei cardini della pittura contemporanea di marca “figurativa”, termine ambiguo, ma che godette di una nuova fortuna, verso la metà del secolo trascorso, allorquando si cominciò a parlare di nuova figurazione, in opposizione alla marea astrattista, che sembrava dilagare per ogni dove.
La questione su cui Leonardo insiste e che ritorna in diversi paragrafi del trattato è quella dell’importanza delle cosiddette macchie in pittura. Anche in questo caso si potrebbe parlare di due livelli, riguardo questa questione, ma per snellire il ragionamento, che, in questo modo, cercherò di portare al suo esito conclusivo, eviterò di considerarli valutandone le differenze. Concentriamoci, dunque, su quel passo del paragrafo che affronta il “Modo d’aumentare e destare l’ingegno a varie invenzioni”, in cui Leonardo annoverando “una nuova invenzione di speculazione” tra i precetti per il pittore, ricorda come essa, per quanto possa sembrare “piccola e quasi degna di riso”, sia “di grande utilità a destare l’ingegno a varie invenzioni”. Si tratta di una particolare attitudine, di una attenzione, che il pittore deve sviluppare, a guardare

in alcuni muri imbrattati di varie macchie o in pietre di varii misti. Se avrai a invenzionare qualche sito, potrai lì vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grandi, valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie ed atti pronti di figure strane, arie di volti ed abiti ed infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e buona forma; che interviene in simili muri e misti, come del suono delle campane, che ne’ loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabolo che tu t’immaginerai.

Il testo continua e sarebbe interessantissimo seguirlo, per avviare un’esegesi di questa singolare teoria (ma forse andrebbe detto meglio, ontologia) percettiva, che procede sempre nella consapevolezza di una considerazione di sé come sapere di tipo tecnico. Sarebbe interessantissimo, se non fosse che questo ci porterebbe troppo lontano da quelle che sono le conclusioni a cui vorrei giungere – conclusioni sempre provvisorie, chiaramente, come si conviene a ogni discorso sull’arte che voglia presentarsi come scientifico, e questo anche in omaggio al testo leonardesco, secondo cui, ricordiamolo, la pittura è una scienza. Non a caso, pure nel paragrafo da cui si è tratto il passo appena riportato, l’abbiamo visto, si fa riferimento al concetto di inventio, di scoperta da investigazione.
Ecco, dunque, la pittura scoprirsi essa stessa arte inventiva, procedura grazie alla quale dall’apparente casualità di linee e colori mescolatisi a partire da un incontro, fors’anche casuale, sulla tela o sulla tavola, si riesce, grazie alla perizia dell’artista, quando c’è (e Leonardo questo lo sottolinea, rimarcando distanza da altri artisti, per esempio da “Botticella”, il quale si accontentava della casualità espressiva, affidandosi all’immediatezza del gesto aleatorio, come quello del lancio di una spugna intrisa di colori su una superficie da dipingere), a creare mondi del tutto inaspettati, almeno fino a quando non si riconoscono, rispecchiandosi, magari, come in questo caso, nell’inquietudine di una mitologia antichissima.

Dario Giugliano